Al Teatro Verdi di Trieste una serata tra Shostakovich e Khachaturian

di Stefano Crise

L’ottusità dei regimi totalitari ha infiniti modi di manifestarsi, certo è che la censura nei confronti di chi produce cultura ha una costante frequenza a ogni latitudine. Shostakovich è, a suo modo, un modello di come il regime sovietico abbia influenzato negativamente un genio. Paradigmatica, in tal senso, la vicenda della Quinta Sinfonia in Re Maggiore op.47 (1937) che viene data alla luce dopo l’attacco feroce di Andrej Zdanov, l’arbitro della linea culturale del PCUS, contro il formalismo e il naturalismo dell’opera Lady Macbeth del Distretto di Mcensk. Shostakovich, per difendere il suo operato artistico, espone in un articolo il programma ideologico di questa Sinfonia; descrive, infatti, il ruolo dell’uomo con tutte le sue sofferenze in una società contraddittoria, cercando di assecondare, in tal modo, i rigidi dettami del regime e, forse, descrivendo la propria condizione. Dopo qualche anno sarà insignito del Premio “Lenin” e del titolo di “Artista del popolo”. Shostakovich nella Quinta Sinfonia non fa risaltare macroscopiche involuzioni contenutistiche, a parte il finale retorico e trionfalistico, ma si impone per la ricchezza delle idee talvolta venate da graffiante ironia.

L’interpretazione che Alexander Anissimov ne ha dato per la Stagione Sinfonica del Teatro Verdi è stata palpitante e ricca di sfumature coloristiche cui ha risposto con grande professionalità l’orchestra triestina.

Se il rapporto tra Shostakovic e il potere è tipico di tanti altri compositori dell’epoca, un caso per altri versi significativo riguarda Aram Khachaturian. Egli è il prototipo del compositore sovietico (anche se subisce un attacco da Zdanov) che produce musica gradevole, funzionale all’arricchimento delle inconsapevoli masse popolari. Il regime doveva ostentare l’essenza multietnica dell’Unione, perciò un’ulteriore fortuna è anche la sua ascendenza georgiana e soprattutto armena. S’incoraggiava, infatti, l’uso di elementi folkloristici, perché adatti alla mitizzazione del popolo creatore, dove, peraltro, non doveva esserci traccia della coeva grammatica avanzata occidentale. Tra le sue poche composizioni rimaste in repertorio c’è il Concerto in Re minore per violino e orchestra (1940) dove sono presenti evidenti richiami alla musica popolare armena.

La violinista Anna Tifu ha rivelato tutto il suo solido virtuosismo esibendo un suono preciso e affascinante grazie anche al meraviglioso Stradivari Maréchal Berthier (1716). L’interprete si è fatta ammirare per l’intenso vibrato che ha permesso una cantabilità in certi momenti dalle sfumature struggenti. Virtuosismo e piacere melodico si sono fusi nell’Allegro con fermezza iniziale in cui il tema motoristico e quasi ostico lascia lo spazio al secondo tema più pensoso e delicato. Ogni inciso melodico, poi, è stato risolto con un fraseggio che ha fatto respirare tutta la narrazione. Lo si è apprezzato in modo particolare nell’Andante sostenuto dove al dolce con dolore, il violino ha “cantato” con passione contenuta, restituendo quella tristezza che forse a Zdanov, in altri contesti, non sarebbe andata proprio a genio. Tanto peggio per lui.