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Il Quartetto Hagen e le sfide acustiche del Teatro Argentina di Roma

di Andrea Nocerino

Di recensire una sala, piuttosto che un concerto, capita di rado. Eppure, nel caso del Teatro Argentina dove il 25 Novembre si esibiva il Quartetto Hagen per la Stagione dell’Accademia Filarmonica Romana, sarà importante partire proprio dalle condizioni acustiche in cui i musicisti e il pubblico si sono incontrati per questo importante appuntamento.

Lo storico direttore d’orchestra Sergiu Celibidache, nel corso della sua vita, ha dedicato numerose riflessioni al tema della fenomenologia musicale; tra esse, naturalmente, rientra il lavoro sull’acustica e sulle sue ingerenze nell’esecuzione dal vivo. Si tratta in realtà di considerazioni che istintivamente vengono applicate da chiunque nel corso della vita quotidiana, come racconta bene Woody Allen in un film dedicato ad un orgoglioso cantante italiano, capace di cantare solamente nella splendida risonanza della sua doccia.

Il discorso ovviamente non è così semplice quando si mescolano, ad un’acustica poco efficace e di crudo realismo, il Quartetto op. 135 di Beethoven o lo struggente Langsamer Satz di Webern. I musicisti austriaci, inutile negarlo, iniziano l’esecuzione senza trovare la giusta intesa: i suoni dei loro strumenti sembrano troppo diversi l’uno dall’altro, si odono difetti di emissione e poco affiatamento sull’intonazione. Bastano i quattro magnifici strumenti antichi italiani o l’esperienza quarantennale a trasformare l’esecuzione, prendendo possesso del palco?

Alcuni momenti, come il terzo movimento del Quartetto beethoveniano o l’inizio di Webern, ci fanno capire che i Maestri sul palco stanno conducendo una lotta per dominare la fenomenologia della sala, ma alla fine della prima parte del concerto, lo ammettiamo, non sono riusciti completamente nell’intento. Tuttavia chi pensava di poter esprimere un giudizio, giunto a questo punto, sarebbe stato in errore. Con l’Op. 41 di Robert Schumann il quartetto, come uno sportivo al secondo round, ha cambiato volto: i musicisti hanno iniziato a comunicare diversamente, il primo violino ha trovato il timbro che cercava, violoncello e viola proponevano e rispondevano con eleganza.

Il concerto di ieri è la dimostrazione che un concerto andrebbe sempre ascoltato fino alla fine, perché il lavoro sulla scena è vivo, complesso e a volte imprevedibile. Tutto ciò apre la porta a interessanti dissertazioni sul valore della musica dal vivo, oggi sempre più opportune e doverose: il Quartetto Hagen ci ha dimostrato che l’esperienza e i magnifici strumenti non sono nulla senza un acuto spirito comunicativo, che difenda la vera musica da difficoltà concrete e troppo terrene per l’arte espressa.

Assistere a una trasformazione fenomenologica, oggi, vale più di un concerto impeccabile.