Image

Mezzo secolo di grande musica con i 12 Violoncelli dei Berliner Philharmoniker

di Lorenzo Montanaro

Cinquant’anni dopo, lo stesso stupore, lo stesso senso di sorpresa e quasi di sacralità. Dal silenzio assoluto, in pianissimo, si muovono, sinuose, le prime note di Hymnus di Julius Klengel. E il tempo sembra fermarsi e tutto ritorna a quel punto da cui tutto è iniziato. Più che un ensemble, ormai i 12 Violoncelli dei Berliner Philharmoniker sono una leggenda, sono un unicum divenuto celebre in tutto il mondo, non solo per la qualità stellare delle esecuzioni, ma anche per l’innata capacità di sparigliare le carte del repertorio, riuscendo a sintonizzarsi con un pubblico quanto mai eterogeneo. Il 21 marzo, a Torino, per la Stagione di Lingotto Musica, i 12 hanno celebrato i primi cinquant’anni di carriera con un concerto memorabile, capace di riassumere mezzo secolo di storia, ma anche di proiettarsi verso il futuro. Parliamo infatti di una formazione che resta fedele a se stessa, pur cambiando, progressivamente, i suoi elementi, proprio come un organismo vivente, che rinnova, un poco alla volta, le proprie cellule. 

Soffermarsi sulla compattezza del gruppo, sulla logica d’insieme che traspare a ogni colpo d’arco, il tutto unito a una pulizia sonora impeccabile e a una sensibilità timbrica straordinaria, rischierebbe di risultare perfino pleonastico. Sarebbe un po’ come dire che una Ferrari “corre veloce”. Siamo davanti a un gruppo di fuoriclasse, costola di una tra le più prestigiose e celebrate compagini orchestrali al mondo. Date quindi “per scontate” (si fa per dire) le doti tecniche ed espressive, può essere perfino più interessante soffermarsi sulle scelte di repertorio, perché è in esse che sta il marchio di fabbrica dell’ensemble, ciò che lo rende davvero unico. In una parola, si chiama libertà. Solo per musicisti di questo calibro, infatti, passare con assoluta disinvoltura dal repertorio ottocentesco al tango, dalle avanguardie alla musica da film diventa un gioco da ragazzi. E il successo dei 12 di Berlino sta proprio nella duttilità, oltre che nella capacità di proporsi con leggerezza, coniugando rigore teutonico e carnevale, profondità e autoironia. Grandi, sì, ma di una grandezza che avvicina, perché non intimidisce e non mette soggezione.

La serata torinese si è aperta, dicevamo, con Hymnus di Klengel, un amarcord: infatti, nel ’72, fu proprio una produzione radiofonica di questo brano l’occasione che portò alla costituzione del gruppo come entità autonoma. Da allora, molti celebri compositori hanno scritto musica espressamente per i 12 e il concerto del cinquantennio è stato anche l’occasione per rendervi omaggio. Ecco allora l’ammaliante Aubade, in 6 movimenti, di Jean Françaix, e, nella seconda parte della serata, Twelve angry men dell’australiano Brett Dean (violista nei Berliner dal 1985 al 1999, prima di affermarsi come compositore). Il titolo si ispira all’omonimo film di Sidney Lumet (“La parola ai giurati” nella versione italiana) del 1957: nella storia, un giurato, sulla base di un ragionevole dubbio, tenta di convincere gli altri 11 dell’innocenza di un ragazzo, accusato di omicidio. Così, il brano di Dean dà letteralmente la parola ai violoncelli e disgrega l’ensemble nelle sue singole componenti: disegna un reticolo di voci, quasi sempre in disaccordo, che si sovrappongono, si scontrano, si elidono e solo di tanto in tanto trovano brevi istanti di sintonia. Un pezzo di grande effetto. Il resto del programma è stato una cavalcata tra il colto e il popolare, da Nino Rota (con uno struggente arrangiamento sui temi de “La strada”) a Duke Ellington, dalle magie di Parigi fino al gran finale, con le travolgenti note di Piazzolla, che hanno fatto letteralmente esplodere di applausi l’Auditorium del Lingotto.