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Il Quatuor Diotima a Lugano: chiarezza e intensità drammatica

di Luca Segalla

L’intensità espressiva, la tensione ritmica, la pienezza di un suono caldo e pastoso e la ricchezza della trama dialogica del Quatuor Diotima hanno regalato al pubblico di Lugano delle emozionanti interpretazioni dei due Quartetti per archi di Leoš Janáčeck e dei due Quartetti per archi di György Ligeti, sabato 11 febbraio nel piccolo e spartano spazio del Teatro Studio del LAC. L’occasione era il secondo dei tre appuntamenti del “Weekend di quartetti”, da alcuni anni un appuntamento fisso nell’ambito del Cartellone di LuganoMusica.

Quanto la musica del Novecento sia congeniale al Diotima lo ha già dimostrato in modo eclatante il cofanetto con l’integrale dei Quartetti di Bartók, pubblicato tre anni fa da Naïve, un’integrale affrontata con un’intensità drammatica pari alla chiarezza e precisione dell’insieme, non solo per la grande cura dei dettagli ma anche e soprattutto per la cura degli equilibri dinamici. Sono state le stesse coordinate delle interpretazioni del concerto tenuto a Lugano, in cui la distanza ravvicinata tra esecutori e pubblico ha reso molto particolare l’esperienza dell’ascolto. Il programma tra l’altro era costruito su un accostamento non così scontato, quello tra i due Quartetti di Janáčeck e i due Quartetti di Ligeti, proposti questi ultimi nel contesto di un focus che LuganoMusica sta dedicato al compositore ungherese nel centenario della nascita. Sono quattro pagine racchiuse in un arco temporale di una quarantina d’anni (dal 1923 del Primo Quartetto di Janáčeck fino al 1968 del Secondo Quartetto di Ligeti), che però sul piano espressivo sembrano collocarsi in due galassie tra loro lontane. Se i Quartetti di Janáčeck vivono entrambi in una dimensione iper-espressiva, tutte immerse in un Tardoromaticismo colmo di profumi e sapori come accade per un frutto troppo maturo (lo indicano anche i titoli, “Sonata a Kreutzer” e “Lettere intime”), una dimensione alla quale appartiene anche il Primo Quartetto ligetiano, “Métamorphoses nocturnes”, del 1954, il Secondo Quartetto di Ligeti è ormai musica astratta, il frutto di una intellettualissima ricerca intorno alla forma, anche se da questa ricerca si sprigiona - un po’ come accade per le vertiginose avventure polifoniche delle tarde opere bachiane - un’enorme tensione drammatica.

Sia nel Quartetto “Sonata a Kreutzer” sia nel Quartetto “Lettere intime” i violinisti Yun-Peng Zhao e Léo Marillier, il violista Franck Chevalier e il violoncellista Pierre Morlet hanno esibito un suono sontuoso e ricco di vibrato, raggiungendo i livelli lancinanti di intensità emotiva che le due partiture di Janáčeck richiedono, soprattutto quando il dialogo si fa più fitto, come nel terzo movimento del Quartetto n.1, dove il primo violino e il violoncello intessono un fitto scambio di idee il cui decorso viene continuamente interrotto dalle irruzioni del secondo violino e della viola, oppure nell’Adagio del Quartetto n.2, una sorta di ninna nanna sussurrata a fior di archetto. Il primo violino del Diotima, Yun-Peng Zhao, è un musicista di straordinario valore, eppure non si pone mai al di sopra dei compagni, perché gli equilibri tra i quattro sono ormai messi a punto fin nei minimi particolari, dopo quasi trent’anni di musica in comune, anche nei momenti più concitati e aperti alle influenze delle musica popolare. Lo si è potuto apprezzare, per esempio, nel finale del Quartetto “Lettere intime”, un Quartetto in cui romanticamente vita e arte si confondono, perché le “lettere” del titolo sono quelle inviate a Kamila Stösslová, la ventiseienne della quale Janáčeck si innamorò follemente quando aveva ormai 63 anni e che rappresentò la scintilla capace da dare l’avvio alla creazione dei grandi capolavori del compositore ceco.

La si è vista bene, questa intesa, anche nel Primo Quartetto di György Ligeti, un lavoro molto bartokiano nella sua matericità e nel suo alternare sezioni veloci a sezioni lente ed estatiche, dominate da un cromatismo ancora tutto tardoromantico. La si è vista ancora di più nel Secondo Quartetto del compositore ungherese, con i suoi armonici perfettamente intonati senza alcuna esitazione e il suo intricato tessuto di micropolifonie reso con un grado di risoluzione molto alto, come in una fotografia (la memoria corre subito alle interpretazioni dell’integrale bartokiana). È stato un gioco di equilibrismi dinamici sospesi tra il piano e il pianissimo, che tra l’altro metteva ben in risalto il notevole livello tecnico dei singoli componenti dei Diotima.