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Lo smagliante virtuosismo del Jerusalem Quartet a “Pietrasanta in Concerto”

di Francesco Ermini Polacci

Abbracciata dalle Alpi Apuane e dal mare, Pietrasanta è un’incantevole cittadina nel cuore della Versilia. La chiamano “piccola Atene” perché, negli ultimi decenni, un intelligente processo di riqualificazione vi ha valorizzato l’arte e la cultura. Ed è qui, ormai da diciotto anni, che Michael Guttman, simpatico violinista di origine belga, porta ogni estate i migliori musicisti, noti e meno noti. Pietrasanta in concerto è un festival che gli appassionati non si lasciano scappare, perché le idee di Guttman trovano corrispondenza nella qualità delle proposte musicali, perché non ci sono logiche di agenzia a inquinare la programmazione (i musicisti sono amici di Guttman o da lui scovati in giro per l’Europa), perché si fa semplicemente musica, con entusiasmo e in un clima di distesa familiarità.

Da quest’anno, l’attività musicale si è anche arricchita di un ciclo di masterclass, dedicate al violino e al violoncello organizzate dalla violoncellista Jing Zhao, moglie di Guttman e come lui presenza assai attiva nel Festival. E per capire l’atmosfera che anche in quest’edizione si respirava nel trecentesco Chiostro di Sant’Agostino, a due passi dal Duomo di Pietrasanta, bastava girare lo sguardo verso il pubblico, numeroso quanto attentissimo, e poi volgerlo ai musicisti del Jerusalem Quartet, per cogliere le espressioni d’intesa dei loro volti, fra il complice e il divertito. Quello del Jerusalem Quartet (a Pietrasanta per una delle due sole date in Italia del tour) è stato uno degli appuntamenti di punta di una programmazione che ha visto comunque la partecipazione del Premio Paganini 2021 Giuseppe Gibboni, di Maxim Vengerov (alle prese, assieme alla pianista Polina Osetinskaya, con l’integrale delle Sonate di Beethoven, che proseguirà l’anno prossimo), di Daniel Hope, protagonista, assieme agli amici dell’Air Ensemble, di un divertente programma che tracciava corrispondenze fra la tradizione irlandese e autori come Purcell e Vivaldi. Molti violinisti: del resto, il violino è lo strumento caro a Guttman.

Il Jerusalem Quartet, si diceva, formazione rinomata che nel 2026 festeggerà i trent’anni di attività. Una lunga frequentazione artistica che significa, anche nel concerto a Pietrasanta, sintonia di respiri e di idee espressive, armoniosa coesione nel suono e nel dialogo fra le parti: anche se spesso si ha l’impressione che a condurre il gioco siano il violinista Alexander Pavlovsky e il violoncellista Kyril Zlotikov, trovando comunque sempre corrispondenza in Sergei Bresler, l’altro violino, e in Ori Kam, la viola. L’intesa è evidente fin dalle prime battute del Quartetto n.1 op.12 scritto da Mendelssohn a vent’anni (in quello stesso 1829 in cui sottraeva per sempre dall’oblio la grandiosa Passione secondo Matteo di Bach, dirigendola), e dal Jerusalem Quartet risolto con una naturalezza che svela introspezioni e toni inquieti ma che non rinuncia alla leggerezza gioiosa e in punta di penna (come nella Canzonetta).

Ai quattro del Jerusalem si unisce poi Matan Porat, pianista di origini israeliane come loro, e che rafforza quell’identità culturale con un fraseggio accurato quanto scorrevole, e soprattutto un bel suono. Il tutto al servizio di una fluida interpretazione del Quintetto op.81 di Dvořák, che rende l’ispirazione folklorica della celeberrima pagina con sincerità, con la giusta tornitura delle melodie e la giusta valorizzazione dei ritmi danzanti di matrice slava, senza mai strafare.

Gli applausi festosi del pubblico sono ricompensati da un bis: è l’Allegretto dal Quintetto op.57 di Šostakovič, che suona beffardo e incalzante come dev’essere, e il Jerusalem Quartet e Matan Porat lo rendono tale grazie anche al loro smagliante virtuosismo.

Foto: Bernard Rosenberg