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L’Europa unita, almeno musicalmente. Nicolas Altstaedt con l'EUYO al Bolzano Festival Bozen

di Johannes Streicher

Esattamente sessantatré anni fa, il 13 agosto 1961, venne costruito il Muro di Berlino. Anche se a furia di discutere di venti di guerra (purtroppo quest’anno assai reali) talvolta lo si dimentica, da allora qualche progresso è stato fatto. Undici anni prima della (inaspettata) caduta del Muro, Claudio Abbado riuscì a fondare un’orchestra sinfonica giovanile attiva ogni anno, a Pasqua e d’estate, a base di musicisti dell’Europa occidentale, che dal 1978 in poi ha contribuito assai all’intesa dei Paesi membri della Comunità Europea. Visto il grande successo dell’ECYO (European Community Youth Orchestra), nel 1986 Abbado volle dare l’opportunità di suonare insieme ai coetanei anche ai ragazzi di almeno alcuni paesi dell’Est, e cioè quelli siti lungo il corso del Danubio, negli ex territori k. u. k. (ma non solo), unendoli nel nome di un musicista boemo, austriaco ed europeo, nella Gustav Mahler Jugendorchester. Da allora sono passati quasi quarant’anni, e da diversi decenni queste due orchestre giovanili ad agosto sono ospiti a Bolzano per un periodo di prove, che culmina tradizionalmente in quattro concerti, due per ognuna delle orchestre. Dopo molti anni venne però a mancare il sostegno finanziario di Bruxelles, e quindi, onde evitare lo sfascio di un modello di intesa culturale, l’Austria si è lodevolmente sostituita all’Unione Europea, spostando l’epicentro dell’attività della European Union Youth Orchestra al Festival di Grafenegg.

Quest’anno i primi tre concerti sono stati diretti da Iván Fischer, con un programma dedicato alle rare e spiritose Variazioni su una canzoncina per bambini (non su una ninna-nanna, come erroneamente indica il programma di sala italiano), op.25, di Ernst von Dohnányi (solista l’affascinante ed elegantissima pianista Isata Kanneh-Mason) e la Prima Sinfonia di Mahler (eseguita con dei cantabili struggenti, come poche volte è stato dato di ascoltare: un sogno). Le prime tre tappe quest’anno erano Grafenegg, la Carnegie Hall di New York (Stern Auditorium, niente meno!) e Bolzano; il secondo programma ha invece debuttato a Bolzano il 13 agosto, per essere poi replicato a Lucerna, Edimburgo, Grafenegg e Berlino. (Questi dati si desumono dal programma di sala ufficiale, inglese, che, segno dei tempi, purtroppo è accessibile solo via QR code, che rimanda poi al sito calameo.com, con tutti i dettagli. Certo, se spending review dev’essere, meglio risparmiare sui programmi di sala, ovvero la Summer Tour Brochure, ma è un peccato…).

La prima serata al Bolzano Festival Bozen era dedicata alla memoria di Claudio Abbado, la seconda era dedicata ai cento anni di Radio RAI ed è stata opportunamente registrata; ambedue hanno avuto inizio con un pezzo contemporaneo, l’effervescente Masquerade di Anna Clyne nel primo caso, e Fate Now Conquers di Carlos Simon nella seconda serata, un brano rapido, rumoroso e indolore, il cui presunto rapporto con la Settima Sinfonia di Beethoven è rimasto tuttavia sulla carta.

Le due opere maggiori del secondo concerto, del quale ci occupiamo qui, erano The Young Person’s Guide to the Orchestra op.34, di Benjamin Britten, e Don Quixote op.35, di Richard Strauss: due lavori consistenti di un certo numero di Variazioni, quindi, il che da un lato offriva un motivo d’interesse perché costituiva un bel filo rosso, dall’altro lato invece era decisamente il tallone d’Achille della serata, perché in definitiva non si è mai assistito a un qualche movimento di una certa estensione temporale. Tutta una serie di piccoli quadr(ett)i, dunque, eseguiti in maniera ineccepibile, che hanno messo in mostra la brillantezza degli strumentini, il suono sontuoso degli ottoni, il velluto degli archi, l’estrema precisione di arpa e percussioni, ma che hanno lasciato il pubblico non dico a bocca asciutta (sarebbe davvero ingiusto), ma con l’impressione di aver piluccato degli antipasti deliziosi, senza mai arrivare al piatto forte.

Devo precisare che Richard Strauss è da sempre il mio compositore preferito (sarà che sono monacense anch’io): per questo mi duole dover dire quel che sto per affermare, ma tra i suoi poemi sinfonici mi pare che il Don Quixote sia uno dei meno riusciti, e per un motivo preciso. Lo strumento solista scelto per la personificazione del protagonista è il violoncello (solista era Nicolas Altstaedt, molto dentro alla parte, ma con un suono non enorme), e mi pare ci sia una certa concordanza sul fatto che si tratti di uno strumento che dà il meglio di sé nei cantabili e casomai in un certo virtuosismo digitale; Strauss, invece, si inventa un tema principale piuttosto ruvido che sostanzialmente è anti-violoncellistico. Da Rostropovich in giù, anche i maggiori violoncellisti a mio parere non si trovano troppo a loro agio con questa parte, semplicemente perché è stata scritta più contro che per il violoncello. (Nemmeno l’eleganza e la nobiltà di Pierre Fournier riuscirono a ‘salvare’ il pezzo – se la memoria non mi inganna – alla sua ultima apparizione romana, all’Auditorium del Foro Italico nel lontano 1983).

Cosa rimane, quindi, in ultima analisi, di questa serata? L’impressione che l’orchestra, davvero strepitosa, sia stata un po’ sprecata con una scelta programmatica non autenticamente felice. Il magnifico crescendo dell’Introduzione, gli scatti formidabili dei violini, le uscite solistiche delle prime parti (prima fra tutti la Viola solista, il cui nome contro ogni consuetudine non è stato indicato sul programma di sala: presumo si sia trattato della portoghese Francisca Barradas Vaz Galante, dal suono dolce, caldo e avvincente, assolutamente da antologia, ma anche il Primo Violino di Spalla, la catanese Lucrezia Costanzo, era bravissima), l’omogeneità di suono delle singole sezioni degli archi (sembra che abbiano suonato insieme da anni, invece sono reduci solo di pochi giorni di prove e concerti) – insomma, la duttilità di un’orchestra stupenda, diretta in maniera esemplare da Gianandrea Noseda, attento a ogni singolo, minimo dettaglio, si sarebbe voluto ascoltarla in Bruckner, Mahler, Ravel o Šostakovič, o magari in Zarathustra o nella Alpensinfonie, ma il Don Quixote ci ha rappacificato solo nel Finale, liricamente intenso e davvero avvincente.

Alla fine siamo stati premiati da un bis elegiaco, eseguito con grande partecipazione anche dal solista, che si è mimetizzato tra i violoncelli di fila: Nimrod (IX) dalle Enigma Variations di Edward Elgar, che induceva a pregare, faustianamente: “Verweile doch, du bist so schön” – un momento che si sarebbe voluto durasse per sempre.

Fotografia di Anna Cerrato