Grandi interpreti al Forum Fondazione Bertarelli inaugurano l'Amiata Piano Festival 2018

di Mauro Mariani

L’Amiata Piano Festival inizialmente si reggeva sull’entusiasmo di Maurizio Baglini, allora giovane e promettente pianista, oggi affermato a livello internazionale come uno dei migliori concertisti della nuova generazione. Da subito il livello artistico è stato ottimo e c’erano tutti i presupposti per positivi sviluppi, che sono arrivati presto, quando alcuni fortunati concerti nell’insolito quanto suggestivo scenario delle cantine Colle Massari hanno catturato l’attenzione della Fondazione Bertarelli, che ha subito deciso di sostenere il festival, costruendo perfino un nuovo bellissimo auditorium per ospitarne i concerti. È il Forum Fondazione Bertarelli, che sorge in un paesaggio incontaminato, dove la presenza umana si limita a qualche vecchio casale, eppure alcune centinaia di ascoltatori italiani e stranieri si materializzano dal nulla in occasione dei concerti del festival, che si svolgono negli ultimi weekend di giugno, luglio e agosto, più un’anteprima a maggio e un altro weekend a dicembre.

Per il primo concerto del primo weekend di quest’anno il festival ha ospitato l’Orchestra della Toscana, diretta da Daniele Rustioni. E in più tre solisti: la violinista Francesca Dego, la violoncellista Silvia Chiesa e il fondatore e direttore artistico Maurizio Baglini al pianoforte. Si sarà già capito che era in programma il Triplo Concerto di Beethoven. Inutile negare che questo Concerto, composto nel 1803-1804, provoca un senso di spaesamento e anche di disagio nell’ascoltatore, che qui non trova quelle tensioni drammatiche e quelle poderose architetture che è abituato a cercare nelle opere di Beethoven di quel periodo, come le Sonate “Waldstein” e “Appassionata”, la Sinfonia “Eroica”, il Concerto n. 4 per pianoforte e orchestra e il Fidelio. Indubbiamente questo dipende dal fatto che per una volta Beethoven ha acconsentito a comporre un’opera di circostanza ad uso dell’Arciduca Rodolfo d’Asburgo, suo allievo e allo stesso tempo suo mecenate. Questo spiega la semplicità della parte pianistica, scritta su misura delle capacità di Rodolfo, che fu uno dei solisti della prima esecuzione, svoltasi naturalmente in forma privata, mentre il violinista era un discreto professionista e il terzo solista era Anton Kraft, uno dei più grandi violoncellisti del suo tempo, membro della Hofkapelle di Vienna e cofondatore del Quartetto Schuppanzig, il primo quartetto stabile di cui si abbia notizia. Questa disparità dei tre solisti si riflette nel ruolo assegnato ai tre strumenti nell’architettura del Concerto e nell’impegno esecutivo a loro richiesto.

Se non si trovano nel Triplo Concerto le geniali concezioni del periodo “eroico”, si possono però apprezzare le capacità squisitamente artigianali di Beethoven, che spesso non riusciamo o non vogliamo vedere, abbacinati dal lato titanico della sua arte. Grazie a questo suo “mestiere” Beethoven riesce a risolvere i due ordini di problemi pratici con cui si deve confrontare: i rapporti fra tre solisti di diverse capacità tecniche e i rapporti del gruppo dei solisti con l’orchestra, quando ormai era tramontato il concerto per più strumenti, legato al gusto della prima metà del secolo precedente.

Per uscire dall’impasse, spesso Beethoven tratta i tre solisti come un gruppo da camera a sé. Si ascolti come nell’Allegro iniziale intreccino tra loro un fitto dialogo, scambiandosi il materiale melodico con una raffinatezza deliziosa e anche un po’ compiaciuta. Ma è nel breve Largo, appena una parentesi tra i due tempi veloci, che i tre solisti raggiungono coesione ed autosufficienza totali: lo si potrebbe considerare un movimento di un Trio, perché l’orchestra si limita a fare atto di presenza con un accompagnamento più che discreto. Nel finale i solisti intervengono con una varietà di atteggiamenti che corrisponde perfettamente alla scrittura esuberante, colorita e perfino scapricciata di questo Rondò alla polacca. Ma ci sono anche molti passaggi in cui intervengono non tutti e tre tutti insieme ma a coppie o singolarmente e questo dà modo a Beethoven di aggirare il problema del loro diverso livello e di liberare Kraft dal freno costituito dagli altri due interpreti originari.

Nel nostro caso non esisteva sicuramente una differenza di capacità tecniche tra Dego, Chiesa e Baglini, ma semmai una differenza di personalità, che non è stata d’ostacolo ma si è risolta in un’esecuzione ricca di diverse sfaccettature, perché gli interpreti hanno saputo ascoltarsi e dialogare tra loro. Maurizio Baglini, che abbiamo conosciuto anni fa come esplosivo virtuoso lisztiano, ha ora molte altre frecce al suo arco e lo ha dimostrato con l’acume con cui ha interpretato la tecnicamente fin troppo facile parte pianistica, scovandovi perle di quell’artigianato musicale beethoveniano cui si accennava prima, che rende interessanti sia un semplice accompagnamento sia i serrati dialoghi spesso giocosi e perfino umoristici tra i solisti. Silvia Chiesa ha un suono raccolto e profondo, attentissimo alle più delicate sfumature di dinamica e di timbro, ma anche eloquente ed appassionato, che conferisce inflessioni già quasi romantiche alle numerose oasi cantabili che Beethoven ritaglia per il violoncello, specialmente all’inizio del secondo movimento. Alla personalità della violoncellista corrisponde perfettamente il suo Giovanni Grancino del 1697, uno strumento nobile e riservato, che però, senza alzare mai la voce, può essere anche avvolgente e profondamente espressivo. Francesca Dego è invece vivace ed estrosa ed ha un senso innato per la bellezza del suono: anche in questo caso il suo temperamento – ma questo avviene sempre, quando un interprete incontra il “suo” strumento – fa un tutt’uno col violino Francesco Ruggeri del 1697, dal suono luminoso e brillante.

Un’ulteriore, splendida conferma che questi tre musicisti avevano trovato segrete affinità elettive l’ha data il bis, il terzo dei Phantasiestücke op. 88 di Schumann. A prima vista potrebbe sorprendere che questo brano per tre strumenti sia intitolato Duetto, ma l’intimo dialogo tra violino e violoncello è chiaramente la trasfigurazione strumentale di un duetto vocale tra due anime romantiche legate da un sublime e purissimo amore, che si uniscono in una melodia di immacolata bellezza su un accompagnamento ad arpeggi del pianoforte, quasi belliniano, se non fosse per le screziature armoniche inconfondibilmente schumanniane. Sebbene Schumann mostrasse di avere in gran dispitto l’opera italiana, questo duetto è la confessione che anch’egli ne subiva il fascino e che sapeva tradurne gli incanti nel proprio personale e inimitabile stile. Nell’interpretazione di Dego, Chiesa e Baglini questo breve brano, generalmente considerato minore, ha suscitato grande emozione nel pubblico.

L’altro protagonista, Daniele Rustioni, ha messo in risalto come l’orchestra, quando non accompagna i solisti e viene in primo piano, assuma i toni eroici delle altre composizioni di Beethoven di quel periodo, soprattutto nel primo movimento. A dire il vero, in questo lavoro di circostanza questi sembrano degli atteggiamenti un po’ fuori luogo, ma quello era il modo beethoveniano di trattare l’orchestra in quegli anni e non era più possibile tornare a un galante stile settecentesco.

Bisogna infine sottolineare che il Triplo Concerto ha guadagnato molto dall’essere eseguito da un’orchestra di quaranta elementi in un auditorium dall’architettura moderna ma dalle dimensioni e dall’acustica paragonabili a quelle delle sale dell’epoca: una “filologia” degli spazi importante almeno quanto quella degli strumenti originali per permettere di cogliere perfettamente i dettagli cameristici e gli equilibri strumentali e anche di godere della vicinanza tra ascoltatori ed esecutori, particolarmente importante in questa musica un po’ salottiera.

Anche la Sinfonia “Pastorale” si è avvantaggiata molto da dimensioni dell’orchestra e della sala simili a quelle originali. Prima di salire sul podio Rustioni aveva introdotto questa Sinfonia in modo molto easy, predisponendo il pubblico ad un ascolto rilassato. Da qualche anno si sta affermando questo modo di accostarsi a Beethoven senza soggezione, superando l’immagine un po’ stereotipata del titano accigliato, e di renderlo così più umano e più vicino a noi: si potrebbe citare in proposito altri interpreti di primissimo piano, che stanno individuando nuove prospettive nella sua musica, anche se continueremo sempre a vibrare all’ascolto dei dischi di Furtwängler e Klemperer. L’interpretazione di Rustioni – con la pressoché impeccabile collaborazione dell’Orchestra della Toscana – era dunque improntata a spontaneità e naturalezza, ma non per questo senza la cura e l’attenzione necessarie ad abbordare con consapevolezza un genio come Beethoven. Questo suo approccio si è rivelato particolarmente adatto alla “Pastorale”, di cui Rustioni ha evidenziato non solo e non tanto gli aspetti descrittivi quanto i sentimenti di semplice e spontanea comunione con la natura ispirati dalla campagna: “più espressione di sentimenti che pittura sonora”, come chiedeva Beethoven. Molto rustica la danza dei contadini del terzo movimento, veloce, chiassosa, sregolata (ma intendiamoci: tutto era perfettamente sotto controllo). E i sentimenti di gratitudine del finale non erano sublimi meditazioni idealistiche ma esprimevano una gioia molto concreta, che si espandeva senza argini in spontanea allegria. L’impressione è che il direttore si sia calato in questa musica con quel tipo di naturalezza che si raggiunge attraverso lo studio e la riflessione, giungendo ad un’interpretazione molto godibile ma che allo stesso tempo faceva pensare.

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Il secondo concerto dell’Amiata Piano Festival, intitolato “Tango jazz”, ha fatto trascorrere una bellissima serata di musica insieme a Javier Girotto al sax soprano e Gianni Iorio al pianoforte. E con l’intervento a sorpresa di Maurizio Baglini, quando Iorio ha imbracciato il bandoneon e gli ha ceduto per un momento il pianoforte. Molto variegato, ma non privo di una sua coerenza, il terzo concerto, che presentava in ognuna delle sue due parti uno dei migliori solisti italiani e allo stesso offriva una panoramica delle possibilità dei rispettivi strumenti. La prima parte aveva come protagonista Simonide Braconi, che con la viola Giovanni Gagliano del 1800 affidatagli dalla Fondazione Pro Canale Onlus ha aperto il concerto con i Märchenbilder op. 113 di Schumann, il primo tra i grandi musicisti del romanticismo a scoprire il fascino della voce ombrosa, malinconica e sognante della viola, cui ha dedicato due bellissime raccolte di quattro brani ciascuna  – questa e le Märchenerzählungen op. 132 – che sono quanto di più schumanniano si possa immaginare ma non sono note come meriterebbero, proprio perché la viola è piuttosto rara come strumento solista. Dopo essersi fatto ascoltare come eccellente violista, Braconi è tornato al proscenio imbracciando la viola d’amore, ma non per eseguire musica del Settecento, come si sarebbe potuto pensare, bensì la Piccola Sonata per viola d’amore e pianoforte op. 25 n. 2 di Hindemith, l’unico compositore di rilievo che abbia scritto per questo desueto strumento nel Novecento. Al di là di qualche omaggio contrappuntistico all’amato Bach, Hindemith non scrive assolutamente un pezzo all’antica e tratta la viola d’amore non come un reperto del passato ma come uno strumento moderno, che può essere insospettabilmente agile ed avere sonorità puntute, aguzze e all’occorrenza aggressive e selvagge. Suonando magistralmente la viola d’amore, Braconi ci aveva mostrato un suo aspetto che non conoscevamo, poi ci ha fatto scoprire un altro aspetto poco noto, quello di compositore. Si è ascoltata in prima esecuzione assoluta la sua Fantasia per violoncello e pianoforte, dedicata a Silvia Chiesa e Maurizo Baglini. È un pezzo molto denso, originariamente scritto per la viola e poi rielaborato per il violoncello, pensando sicuramente al suono profondo della Chiesa, ma sollecitando anche il suo virtuosismo, perché Braconi stesso ha confessato di aver scritto liberamente, senza preoccuparsi troppo delle difficoltà pressoché insuperabili che vi ha disseminato.

I protagonisti della seconda parte erano Giulio Tampalini e la chitarra.  Se Braconi aveva spaziato attraverso tre secoli, Tampalini si è concentrato sul Novecento, che ha fornito ai chitarristi la maggior del repertorio originale per il loro strumento. L’America del sud con Radamés Gnattali e Astor Piazzolla e la Spagna con Claude Bolling (che è francese ma di cui si è ascoltato Hispanic Dance) hanno preso il maggior spazio. Ma Mario Castelnuovo-Tedesco stava un gradino più in alto: nel cinquantenario della morte Tampalini ha voluto ricordarlo con una scintillante esecuzione di Capriccio diabolico (Omaggio a Paganini), la cui difficoltà mantiene quel che il titolo promette.