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La Stagione di Sincronia apre nel segno della fratellanza e in ricordo delle vittime della pandemia

di Mauro Mariani

La stagione concertistica di Sincronia si è aperta il 16 ottobre alla Sala Baldini di Roma con la Sincronia Chamber Orchestra, che come primo brano ha eseguito l’Andantino dal Quartetto in Mi minore per archi di Verdi. Passare da quattro a ventitré strumenti è sempre insidioso, ma l’orchestra – formata da giovani talenti e professori di blasonate orchestre, tra i quali allievi e docenti dei corsi di Sincronia – ha suonato con sicurezza e maturità, ricreando il dialogo quartettistico tra le varie sezioni, ma allo stesso tempo dandogli una pienezza sonora sinfonica e contrasti dinamici molto marcati, che facevano emergere il substrato drammatico, anzi melodrammatico, di quest’unico Quartetto di Verdi. Un ottimo biglietto da visita per l‘orchestra e per il direttore Wilson Hermanto, che ha tenuto sempre saldamente in pugno i giovani strumentisti, da una parte spronandoli e dall’altro controllandone la coesione e l’aplomb.

Era in programma anche la celebre (ma non in Italia) Holberg Suite op.40, un omaggio di Edvard Grieg allo scrittore settecentesco  Ludvig Holberg. È considerata un’anticipazione del neoclassicismo in pieno Ottocento, perché si basa su antiche danze come la Sarabanda e la Gavotta, ma l’orchestra, sia per le sue naturali caratteristiche sia per l’acustica molto risonante della sala, non ha puntato a ricreare trine e merletti settecenteschi e l’ha eseguita con un bel suono caldo e romantico: splendida l’Aria, traboccante di passione e calore, e originale l’attacco del Rigaudon, che poteva ricordare le danze popolari norvegesi chei Grieg tanto amava.

Ma la parte più interessante e anche più godibile del concerto era inaspettatamente (a sfatare i pregiudizi sulla musica contemporanea) costituita da due brani nuovi. Il primo era Il canto del silenzio per viola ed archi di Simonide Braconi, “dedicato alle vittime della pandemia”. È un unico ampio movimento, diviso in sezioni, ognuna delle quali esprime uno stato d’animo provato dall’autore durante i momenti più difficili della pandemia: dolore, timore, angoscia ma anche speranza. Questo ampio brano con viva sensibilità e con sincerità di sentimento ma anche con riserbo esprime emozioni profondamente sentite e ha trovato un intenso riscontro nell’animo degli ascoltatori, che l’hanno ascoltato in assorto, commosso silenzio e l’hanno applaudito alla fine con grande calore. Anche questa volta Braconi, che è noto come prima viola della Scala, si è dunque confermato compositore raffinato. Col “mestiere” ma ancor più con l’autenticità del sentimento ha dato consequenzialità e unitarietà formale ed espressiva ad un brano costituito da tante piccole parti contrastanti. Non segue nessuno degli “ismi” di moda ma si esprime con un suo personale linguaggio, un po’ all’antica ma non antiquato, che, in mancanza di termini più adatti, potremmo definire neoromantico (un neoromanticismo personale “al modo di Braconi”) con qualche asprezza moderna nei momenti espressivamente più tesi. L’autore è stato anche un ottimo interprete del suo brano in veste di solista e l’orchestra e il direttore hanno intessuto uno stretto dialogo con la sua viola.

Il concerto si concludeva con un brano per viola, pianoforte e orchestra d’archi composto nel 1996 dall’oggi sessantatreenne Vakhtang Kakhidze, molto noto nella nativa Georgia e anche all’estero, meno in Italia. Il titolo Bruderschaft (cioè Fratellanza) sembrava fatto apposta per i due solisti che erano i fratelli Braconi, Simonide alla viola e Monaldo al pianoforte. Ad aprire il pezzo sono loro due, il pianista ribatte sempre la stessa nota a ritmo costante, mentre la viola intona alcune note di una canzone popolare, poi le ripete, aggiungendo ogni volta qualche nota in più, fino a suonare l’intera melodia. E non si ferma lì, ma continua a sviluppare quella melodia, fino a trasformarla in cento modi diversi, in cui l’originale non è più riconoscibile. L’orchestra d’archi si aggiunge alla viola, rendendo la parte “melodica” estremamente intricata, e riprende anche l’ostinato ritmico del pianoforte, non soltanto suonandolo con gli strumenti, ma anche con lo schiocco delle dita, col battito delle mani sulle gambe, col soffio della voce. Per tutta la non indifferente durata del brano (poco meno di mezz’ora) Kakhidze tiene sempre ben desta l’attenzione degli ascoltatori. Talvolta ricorre astutamente ad espedienti sorprendenti come quelli appena citati, ma ciò non toglie che il pezzo abbia una reale sostanza musicale. Il finale è scatenato, vorticoso, trascinante, con ritmi diversi che si affastellano in modo apparentemente caotico, ma rigorosamente controllato da Wilson Hermanto, che si conferma anche qui direttore di grande musicalità, energia, autorità (e negli altri brani aveva potuto dimostrare anche la sua eleganza).

Applausi entusiastici, a cui i due solisti, il direttore e l’orchestra rispondono bissando il finale del pezzo di Kakhidze.

Foto: Ilaria Giorgi

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