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La viola nel Novecento: Tabea Zimmermann al Chigiana Summer Festival

di Mauro Mariani

Tabea Zimmermann è una grande e famosa violista. Allora perché i suoi concerti in Italia sono così rari? In tanti anni di frequentazione delle sale da concerto il sottoscritto non aveva mai avuto l’occasione di ascoltarla dal vivo e probabilmente questo valeva anche per gran parte del pubblico di questo concerto del Chigiana International Festival, con l’ovvia eccezione degli allievi della Chigiana stessa, dove da quest’anno la violista tedesca tiene un corso. Quindi è comprensibile lo stupore provato nell’ascoltare per la prima volta il suono che estrae dallo strumento costruito per lei da Patrick Robin nel 2019. La viola, generalmente schiva, discreta e aliena dal protagonismo, appare trasfigurata sotto le dita della Zimmermann ed esibisce un suono pieno, potente, glorioso. Il registro grave potrebbe facilmente essere confuso con un violoncello, che è il sogno impossibile della viola. Luminoso il registro acuto, con solo alcune note un po’ velate, ma succede molto raramente.

Ci si sente in colpa a soffermarsi troppo sulla bellezza del suono della Zimmermann, perché lei sembra considerarlo qualcosa di naturale e perfino scontato, dunque non lo esibisce affatto e si concentra interamente sulla musica che sta interpretando. Il programma certamente non mirava ad ottenere un facile successo e faceva intendere che non mette sé stessa al centro dell’attenzione ma che si mette lei al servizio della musica. Iniziava con due composizioni scritte nei primi decenni del Novecento da due musicisti di diverse generazioni. Di Max Reger ha eseguito la Suite n. 1 in Sol minore op. 131d, che in realtà è piuttosto una Sonata, per la forma dei suoi quattro movimenti come quelle di Bach. Al contrario la Sonata per viola op. 35 n. 1 di Paul Hindemith è piuttosto una Suite in cinque movimenti, tra cui alcuni in ritmo di danza. Pur con differenze fondamentali tra loro, come il distacco del giovane Hindemith dalla tonalità, entrambi i compositori guardano a Bach (e Hindemith guarda anche a Reger: il suo In tempo furioso. Selvaggio è quasi gemello del Molto vivace di Reger) e adottano stilemi barocchi, inserendoli in una chiarezza formale ed in una trasparenza testurale (predomina infatti la monodia) che annunciano un neoclassicismo “alla tedesca”, cioè serioso, lontanissimo dall’ironia del Pulcinella stravinskyano. Questi due brani densi, compatti, solidamente tedeschi, ma non privi di idee originali, esigono attenzione e concentrazione sia dall’esecutore che dall’ascoltatore, ma li ripagano abbondantemente.

Facendo un salto di quasi un secolo si passava agli ultimi anni del Novecento con la Sonata per viola sola di György Ligeti. Anche questa in realtà è una Suite in sei movimenti, ognuno dei quali è in rapporto con una tradizione, uno stile e una forma diverse, dal folklore rumeno (Hora lunga) al barocco (Lamento e Chaconne chromatique) e dal jazz (Loop) ad un omaggio a Bartok (Faksar. Prestissimo con sordino). Dunque qui la varietà e le idee estrose abbondano e sono all’origine di un pezzo complesso e interessante, che tiene sempre ben desta l’attenzione dell’ascoltatore, tanto che può essere ben definito godibile, aggettivo che non viene spesso alla penna a proposito della musica dell’ex avanguardia.

Negli stessi anni George Benjamin componeva Viola viola per due viole su richiesta di Toru Takemitsu per la serata inaugurale d’una nuova sala da concerto a Tokyo, quando questo brano fu eseguita da Yuri Bashmet e Noboku Imai. Il suo primo pensiero fu «come risolvere i molti problemi compositivi connessi […] al ruolo tradizionale della viola come voce malinconica nascosta nell’ombra. Tuttavia, una volta iniziato, si è imposto un carattere strumentale completamente diverso, focoso ed energico. Il mio desiderio a volte era quello di evocare una profondità e una varietà di suoni quasi orchestrali». È dunque perfetto per la viola della Zimmermann, che infatti ne ha offerto un’esecuzione maiuscola in duo col suo ventiquattrenne allievo franco-olandese Sào Soulez Larivière, che dalla sua viola costruita da Fréderic Chaudière nel 2013 ottiene un suono molto simile a quello straordinario della sua maestra, e non è un complimento da poco.

La Zimmermann deve avere molta stima di lui e gli ha affidato l’esecuzione della Sequenza VI di Luciano Berio, scritta nel 1967 per Walter Trampler. Come ha scritto il compositore stesso, questo pezzo è un «omaggio indiretto e forse un po’ sgarbato» al virtuosismo paganinano e allo stesso tempo «uno studio formale sulla ripetizione, sul rapporto fra moduli ripetuti frequentemente e altri che appaiono una volta sola». Il bravissimo Soulez Larivière ha suonato impeccabilmente, ma avrebbe potuto mettere meglio in luce la creatività di Berio, che è rimasta un po’ ingabbiata in questo lungo “studio formale” del 1967, il periodo più rigoroso dell’avanguardia darmstadtiana.

La creatività di Berio si espande invece liberamente in Naturale, scritto per Aldo Bennici diciannove anni dopo la Sequenza VI. La viola qui non è l’unica protagonista, si ascolta anche la voce di Peppino Celano, «forse l’ultimo vero cantastorie siciliano», che nella registrazione effettuata dallo stesso Berio nel 1968, giunge un po’ flebile, come da un mondo perduto e lontano nel tempo e nello spazio. Gli interventi delicati delle percussioni di Antonio Caggiano si aggiungono come una lontana risonanza alle voci della viola della Zimmermann e del cantastorie siciliano ed accentuano quest’atmosfera di magica lontananza. Berio parla di “sopraffazione”, “decostruzione” e “abuso filologico” di quei canti siciliani, ma questo non significa affatto che vengano svalutati e maltrattati, al contrario; infatti aggiunge: “è solo allora, credo, che la trascrizione diventa un atto realmente creativo e costruttivo”. Ne nasce un pezzo di grande fascinazione e profonda poesia.

Si concludeva così un concerto che ha dimostrato - lo si dice anche ad uso degli organizzatori delle Stagioni concertistiche italiane - come la viola possa sostenere un intero programma con grande soddisfazione del pubblico, che infatti alla fine di ogni brano è esploso in meritatissime ovazioni e altre manifestazioni d’entusiasmo incontenibile.

Fotografie: Roberto Testi

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