Dieci anni senza Claudio Abbado: il Maestro nelle parole di Franco Fantini, Ludwig Quandt e Antonello Manacorda

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Claudio Abbado con Antonello Manacorda e la Mahler Chamber Orchestra

Esattamente 10 anni fa, il 20 gennaio 2014, moriva a Bologna dopo una lunga malattia Claudio Abbado, considerato unanimamente uno dei maggiori direttori d'orchestra dell'ultimo secolo. Ecco come lo ricordano tre straordinari musicisti che hanno avuto il privilegio di condividere per anni il palcoscenico con lui, raccolti da Archi Magazine in occasione della scomparsa del Maestro.

Franco Fantini:
«Quelli con Abbado sono stati momenti grandissimi»

«Ho avuto l’opportunità e la fortuna di conoscere il M° Abbado sin da ragazzo: quando studiavo in Conservatorio con suo padre Michelangelo, frequentavo infatti casa Abbado. Claudio aveva otto anni meno di me. Ricordo che già da bambino – avrà avuto otto, nove anni – manifestava il desiderio di diventare direttore d’orchestra. Poi io entrai alla Scala mentre lui proseguiva gli studi, quindi per un po’ di anni non ci siamo visti.

A metà degli anni Cinquanta, per un paio d’anni, abbiamo formato un trio con pianoforte con il Primo violoncello della Scala, Mario Gusella, e abbiamo suonato in varie città. In seguito ci siamo nuovamente incontrati quando ha iniziato la carriera di direttore d’orchestra ed è venuto da noi alla Scala. Si vedevano già in lui le possibilità, la serietà, la preparazione. Una cosa del M° Abbado mi è rimasta sempre impressa: ho visto in lui un progresso, un’ascesa continua. I suoi meriti sono stati enormi, sia a livello musicale che culturale.


La cosa più grande che ha fatto per noi è stata la creazione della Filarmonica della Scala nel 1982, riuscendo a convincere i musicisti e la direzione che l’orchestra aveva bisogno di trasformarsi. Fino ad allora facevamo due brevi Stagioni sinfoniche di circa un mese e mezzo ciascuna, in primavera e in autunno, ma non riuscivamo mai ad avere un vero repertorio. Eravamo considerati una formazione lirica, insomma. Con lui la nostra orchestra è finalmente diventata sinfonica, non solo per la continuità del lavoro che si faceva durante tutto l’anno ma anche perché è cambiata veramente la mentalità dei componenti. Secondo me, nella sua lunga storia, la Scala ha vissuto due momenti davvero importanti: quando nel 1921 Toscanini creò l’Ente Autonomo della Scala (prima il Teatro era proprietà dei palchettisti, che con gli impresari facevano quel che volevano) e poi la grande svolta della Filarmonica. Da allora è cambiato tutto.

Claudio non era un direttore d’orchestra dispotico, piuttosto faceva la musica con noi, era come un componente dell’orchestra, era davvero speciale. E poi aveva una tale cultura, un repertorio che andava da Bach a Stravinsky, Schönberg e Berg, per non parlare di quello operistico italiano – ricordo uno sfolgorante Simon Boccanegra, le Opere di Rossini… Siamo sempre stati vicini, tra noi c’era un rapporto come tra vecchi compagni di scuola. Per me quelli con Abbado sono stati momenti grandissimi».

Ludwig Quandt:
«Aveva una straordinaria abilità di "amplificare" l’energia proveniente dall’orchestra»

«Ho conosciuto Claudio Abbado per la prima volta quando sono entrato nei Berliner Philharmoniker nel marzo 1991 al Festival di Pasqua di Salisburgo. Allora ero nella fila dei violoncelli (ho avuto il posto di Primo Violoncello nel marzo del 1993).

È difficile spiegare come sia cambiata l’orchestra con Abbado. Io non c’ero durante l’“era” Karajan, ma naturalmente sono consapevole di come egli abbia plasmato i Berliner in oltre tre decadi. All’arrivo di Claudio la maggior parte dei musicisti era ancora completamente sotto la sua influenza; tuttavia ci fu, in relativamente poco tempo, un cambio generazionale. Se da una lato fu una gran cosa, dall’altro si rivelò anche un ostacolo: Claudio si rese conto di dover convincere i musicisti più anziani a seguirlo durante i loro ultimi anni in orchestra. D’altra parte poté plasmare i più giovani e i nuovi entrati (come me), e questo fu naturalmente molto più facile.

Voleva che tutti lo chiamassimo Claudio. Ci ha aperto la mente, voleva che ogni concerto fosse un evento unico. Il suo modo di lasciare che i musicisti si ascoltassero l’un l’altro, dando alle parti soliste dell’orchestra lo spazio per respirare, si rivelò uno stile diverso, più “democratico” rispetto agli anni precedenti. Aveva una straordinaria abilità di “amplificare” l’energia proveniente dall’orchestra. Quasi in ogni concerto potevo sentire questa speciale elettricità!

Come tutti sappiamo, Claudio non era una persona di molte parole. Comunicava con i gesti, lo sguardo, il corpo in una maniera unica – elastica e fluida anche nei momenti musicali di maggiore tensione, potenza o disperazione. L’ultima prova di un programma a volte lasciava più questioni irrisolte della prima. Ma poi i concerti chiarivano tutto…

Ci sono state talmente tante esecuzioni straordinarie con lui che non riesco a citarne una in particolare. Senz’altro il concerto di commiato da direttore principale a Berlino con le musiche da film di Shostakovich (un’esecuzione dal vivo con il famoso film Re Lear di Gregorij Kosinew) è stato per me profondamente commovente, poiché Claudio – era la mia sensazione – s’identificava in qualche modo con il Re solo. Allo stesso modo mi torna in mente la favolosa esecuzione del Boris Godunov di Mussorgsky. Se menzionassi anche le numerose e altrettanto indimenticabili esecuzioni della Nona Sinfonia di Mahler, potrei dare l’idea che amasse solo la musica tragica...

Per quanto mi riguarda, forse il periodo più felice trascorso con lui è stato a Roma, quando abbiamo suonato l’integrale delle Sinfonie di Beethoven nel febbraio 2001. Claudio aveva riacquistato un’incredibile forza dopo la terribile malattia del 2000. Ogni giorno, naturalmente, suonavamo un programma diverso con una ripresa televisiva la mattina. La sera tardi dopo i concerti facevamo le ultime prove. Io ero giovane, ma al termine di quelle giornate ero alquanto esausto; Claudio, invece, sembrava avere un’energia infinita.

Stare seduti ad un metro dal direttore crea una profonda relazione musicale senza bisogno di parole. Durante il periodo di Claudio come direttore principale non ho avuto molti contatti personali con lui al di fuori delle prove e dei concerti, ma potevo sentire che aveva fiducia in me, e questo mi dava una grande ispirazione e sicurezza. Penso che per lui fosse indispensabile essere in “armonia” con i suoi musicisti.

Mi chiese più volte di far parte della sua Orchestra Mozart; purtroppo ho potuto partecipare solo agli ultimi concerti di questo straordinario ensemble, a Bologna e a Vienna alla fine dell’anno scorso, diretti da Bernard Haitink. Quando in quell’occasione sono andato a trovare Claudio a casa sua, il suo fisico era debole, ma il suo spirito era lo stesso che avevo conosciuto durante tutti gli anni trascorsi con lui. Aveva tanti buoni amici nella nostra orchestra, ed è stato solo un caso che io sia riuscito a vederlo così poco prima della sua scomparsa».

Antonello Manacorda:
«La sua musica diceva tutto di lui»

«Ho conosciuto Claudio Abbado a Torino quando Francesca Camerana mi telefonò, in quanto borsista della DeSono, per suonare una Sarabanda di Bach nell’Auditorium del Lingotto. La sala era in fase finale di costruzione e Claudio Abbado e Renzo Piano volevano fare una piccola prova di acustica. Alla fine della Sarabanda Claudio si avvicinò e mi chiese se avessi voluto essere il Konzertmeister della Gustav Mahler Jugend-Orchester l’estate successiva.

I concerti con lui che ricordo sono infiniti perché Abbado aveva il dono di rendere ogni esecuzione speciale. Questo è ciò che mi ha insegnato: si studia, ci si confronta, si prova, si decide, si cambia idea... Ma poi c’è il concerto dove il cerchio si chiude: il compositore e l’esecutore hanno un pubblico e il “suonare” non è più lo stesso.

Il nostro rapporto è stato molto intenso dal momento in cui fondai con altri musicisti la Mahler Chamber Orchestra. Claudio ci ha subito sostenuti e aiutati offrendoci la produzione del Don Giovanni al Festival di Aix-en-Provence con Peter Brook.

Claudio era una persona che non parlava tanto né alle prove né in privato. La sua musica diceva tutto di lui e lui si esprimeva appieno sul podio in concerto.

Ho un ricordo molto intenso di uno sguardo durante la Sesta Sinfonia di Mahler: uno sguardo nel quale ho avuto la sensazione di averlo visto profondamente, durò forse tre o quattro secondi ma mi accompagnerà per sempre».

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