Image

Alëna Baeva e Sergey Malov: incontri ravvicinati allo Stresa Festival

di Luca Segalla

Difficile immaginare due violinisti più diversi di Alëna Baeva e Sergey Malov. Lei elegantissima nella bellezza abbagliante del suono e nel fraseggio morbido e sinuoso, lui istrionico e nervoso, tutto guizzi e scarti di umore. Alla 62ª edizione dello Stresa Festival si sono sfiorati, dialogando a breve distanza in due concerti il cui comune denominatore era la musica di Schubert. Alëna Baeva è stata protagonista il 26 agosto nella Stresa Festival Hall con il pianista Dmitry Ablogin, Sergey Malov il 29 con la fortepianista Flóra Fábri nella Chiesa di S. Ambrogio.

Tra le mani della Baeva la giovanile Sonata in La maggiore D 575 “Grand Duo” di Schubert si è rivelata un gioiello di eleganza e misura, levigata nel fraseggio e nel timbro, sempre pulita anche nei momenti più concitati come il brillante Allegro vivace conclusivo, anche perché a Stresa accanto alla violinista russa c’era un pianista di grande valore come Dmitry Ablogin, altrettanto preciso nei dettagli e capace di ottenere dal suo strumento una sorprende ricchezza di colori senza comunque rubare la scena alla compagna di avventura.

L’intesa tra i due è stata ancora più evidente nella Sonata di Leóš Janáček, capolavoro appassionato e sofferto in cui il compositore ceco ha riversato la sua violenta passione amorosa, vissuta tutta però nella dimensione sublimante della scrittura (centinaia e centinaia di lettere), per la giovane Kamila Stösslovà, conosciuta nel 1917 quando lei aveva ventisei anni e il compositore sessantatré. Lo si è avvertito subito nelle prime battute, nelle quali il lungo Re bemolle del violino crea un senso di attesa a preparare il successivo disegno melodico di sapore tzigano sul rabbioso accompagnamento del pianoforte, in un parossismo espressivo che raggiungeva il suo culmine nel terzo movimento per poi sfociare in uno spettrale Adagio, immerso in un clima cupo e allucinato. Eppure tra tanti turbamenti espressivi il duo Baeva-Ablogin ha sempre conservato un controllo assoluto, senza lasciarsi andare a gesti scomposti, anzi trovando momenti di altissimo e purissimo lirismo nel secondo movimento.

In ogni caso l’approccio rispetto alla Sonata “Grand Duo” di Schubert è stato radicalmente diverso, a riprova della versatilità di due interpreti che nella seconda parte della serata hanno lasciato scivolare senza troppe preoccupazioni, così come deve essere, la musica un poco salottiera della Romance del ventenne Sergey Rachmaninov (dai Morceaux de salon op.6) per poi tratteggiare una Sonata in La maggiore di César Franck delicata ed elegante nell’espressione e piuttosto lontana da languori tardoromantici, da apprezzare soprattutto per l’intensità del dialogo tra il violino e il pianoforte, la qualità del suono anche nei pianissimi, il fraseggio sospiroso e leggero del movimento conclusivo.

Se l’intonazione di Alëna Baeva è immacolata, il violinismo di Sergey Malov è al contrario ruvido e robusto, teso a mettere in luce i contrasti dinamici e gli scarti dell’armonia anche a scapito della resa precisa di ogni singolo dettaglio e della cura certosina dell’intonazione. Il suo Schubert aveva di conseguenza tutto un altro sapore, nel fraseggio nervoso e frastagliato, nelle escursioni dinamiche e nell’urgenza espressiva, tra l’altro in singolare contrasto con l’approccio di Flóra Fábri che al fortepiano era molto composta e attenta anche ai più piccoli particolari.

Fin dal primo brano in programma, la Sonata in Re maggiore op.137 D834, infatti, se Flóra Fábri suonava “in stile”, secondo le acquisizioni della filologia, Malov puntava a drammatizzare Schubert e lo si è avvertito ancora di più nella spiazzante interpretazione della celebre Sonata in La minore D821 “Arpeggione”, eseguita su un violoncello da spalla a cinque corde, strumento un poco più grande di una viola da braccio che si imbraccia come una chitarra e si suona con l’archetto. Il fraseggio spezzato all’inverosimile, i continui scarti agogici, le escursioni dinamiche esasperate e rese ancora più evidenti dell’acustica molto risonante della Chiesa di S. Ambrogio hanno restituito al pubblico un’immagine sonora dell’Arpeggione totalmente inedita, in un’interpretazione in cui violino e pianoforte ancora una volta erano in disarmonia, come rivelavano soprattutto il secondo movimento, nel quale Sergey Malov cercava un fraseggio molto teatrale sullo sfondo dell’accompagnamento quieto e domestico di Flóra Fábri. Una simile interpretazione, giocata sull’opposizione più che sulla ricerca dell’equilibrio tra i due strumenti, senza dubbio lascia perplessi, anche perché tra le mani di Malov la brillantezza di Schubert, nel finale dell’Arpeggione come nel Rondò in Si minore D895 presentato in chiusura di serata, diventava frenesia e tendeva a scomporsi; è il frutto, però, di una ricerca sull’espressione della musica, anzi sulla rappresentazione della musica che viene portata avanti fino alle estreme conseguenze.

Da questo punto di vista è interessante annotare che Malov si trova a suo agio nel repertorio paganiniano, repertorio teatrale per eccellenza, e nel repertorio novecentesco e contemporaneo, come abbiamo già avuto modo di sottolineare recensendo proprio sulle pagine di Archi Magazine il suo concerto a inizio giugno a Mantova per “Trame Sonore” e come nella serata a Stresa ha mostrato la riscrittura dell’ultimo Lied della raccolta schubertiana Winterreise a opera del contemporaneo Leonid Desyatnikov. In Wie der alte Leiermann Desyatnikov affida le battute di introduzione al violino invece che al pianoforte, ribaltando la prospettiva dell’originale in un labirinto spettrale di dissonanze in cui la musica di Schubert si riduce a echi e brandelli. L’idea di fondo è interessante, per quanto il brano risulti troppo lungo e finisca per essere ripetitivo, e l’interpretazione di Sergey Malov, ben assecondato dalla Fábri, è stata di alta intensità drammatica, nelle sonorità secche e taglienti, nell’incisività del colpo d’arco e nella violenza delle dissonanze.

 

Foto: Andrej Grilc - Julia Wesely