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Un pomeriggio dedicato Brahms al LAC di Lugano con Frank Peter Zimmermann e Martin Helmchen

di Luca Segalla

Un appuntamento cameristico di classe, domenica 12 novembre a LuganoMusica, con il violinista Frank Peter Zimmermann e il pianista Martin Helmchen. Un concerto pomeridiano nel segno dell’intimismo, della pulizia e della chiarezza nell’articolazione con un Zimmermann al completo servizio della musica, che non nutriva alcuna pur legittima velleità virtuosistica e nulla ha concesso alla sontuosità e all’ampiezza del suono, anche dove ampiezza e sontuosità, come nella Sonata per violino e pianoforte in Sol maggiore n. 1 di Johannes Brahms, sarebbero più che legittime.

Quasi tutto brahmsiano era il corposo programma, con la citata Sonata n. 1, una trascrizione della Sonata n. 1 in Fa minore op. 120 per clarinetto e pianoforte e lo Scherzo dalla Sonata F.A.E., tra i quali si insinuava - corpo estraneo ma non troppo - la Sonata per violino e pianoforte n. 1 SZ 75 di Béla Bartók. Al fraseggio spigoloso e innervato di continui scatti ritmici di quest’ultima il violinismo asciutto e incisivo di Zimmernann si adatta a meraviglia, infatti a Lugano si è ascoltata un’interpretazione emozionante in primo luogo per l’intensità di un lirismo ridotto alla sua nuda essenza, come ha rivelato in particolare la melopea del violino in apertura del secondo movimento, con i suoi suoni armonici e la sua estensione nella zona sovracuta in cui Zimmermann si muoveva sempre in scioltezza; allo stesso modo emozionavano le sonorità tese e sottili dei due movimenti estremi, che si sono fatti apprezzare anche per la qualità dell’intonazione, per la perfetta esecuzione degli armonici nella Coda dell’Allegro appassionato iniziale (ma sarebbero da citare anche i bicordi del secondo movimento) e infine per l’incandescenza ritmica ed espressiva dei passaggi più concitati dell’Allegro molto conclusivo.

Cameristi entrambi di lungo corso anche se non partner abituali sul palcoscenico (insieme collaborano dal 2018), Zimmermann ed Helmchen hanno trovato una perfetta intesa sul piano espressivo e degli equilibri dinamici, anche nella parte più consistente del programma del loro recital, quella dedicata a Brahms. La prospettiva era sostanzialmente la stessa con cui si sono approcciati a Bartók, nella rinuncia alla brillantezza in favore degli indugi e nella rinuncia al “bel suono” in favore della ricerca espressiva, come ben ha rivelato uno Scherzo dalla Sonata F.A.E., lavoro composto nel 1853 a più mani da Schumann, Brahms e Alfred Dietrich della quale oggi si esegue quasi esclusivamente questo Scherzo uscito dalla penna di un allora ancor giovane Brahms, e soprattutto una trascrizione della Sonata in Fa minore per clarinetto e pianoforte che era lontana dal calore timbrico della versione originale anche perché Zimmermann cercava un fraseggio elusivo, a volte un poco languido ma sempre elegante, nel segno ancora una volta della pulizia, della precisione e degli equilibri emotivi. Si aveva l’impressione che Zimmermann trattenesse il canto, senza abbandonarsi a grandi gesti dell’espressione e modellando il fraseggio attraverso un legato di grandissima classe e un’attenzione estrema alla fusione timbrica con il pianoforte di Helmchen.

Il vibrato veniva introdotto con estrema parsimonia, anche in una Sonata n. 1 in Sol maggiore tutta sospiri e indugi, il cui secondo movimento era tanto drammatico quanto asciutto nel suono (eravamo distanti anni luce dal vibrato che qui esibisce, per esempio, Itzhak Perlman nella sua celebre registrazione delle 3 Sonate brahmsiane con Vladimir Ashkenazy del 1983) e il cui Allegro molto moderato conclusivo si dipanava in una pensosa penombra timbrica per svanire infine un suggestivo piano (è tutto scritto in partitura, ma il modo in cui Zimmermann ed Helmchen hanno chiuso la Sonata aveva qualcosa di magico). A confermare che proprio l’intimismo e la malinconia erano i sentimenti dominanti del recital è stato il bis, non un vivace pezzo di bravura per congedare festosamente il pubblico come ci si sarebbe potuti aspettare, ma un Adagio, quello della Terza Sonata in Re minore sempre di Brahms, suonato anche in questo caso con un’attenzione estrema ai chiaroscuri.

Foto: © Sabrina Montiglia