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A Lugano il Cuarteto Casals ha acceso la prima serata del tradizionale “Weekend di quartetti”

di Luca Segalla

È toccato quest’anno agli spagnoli del Cuarteto Casals aprire, il 12 gennaio, l’ormai tradizionale “Weekend di quartetti” al LAC di Lugano, una tre giorni di musica da camera con protagonisti quartetti di primo piano delle scene europee - accanto al Casals c’erano questa volta il Quartetto Szymanowski e il Quatuor Ebène - nel piccolo spazio del Teatro Studio, una delle sale prova del LAC il cui aspetto dimesso e un poco grigio si lascia perdonare facilmente dal pubblico, che ha l’occasione di sedersi a stretto contatto con gli interpreti assaporando della musica che arriva in modo diretto alle orecchie. È stata una serata per pochi intimi - i posti a disposizione sono un centinaio e in questa occasione c’era anche qualche posto vuoto - e di grande intensità drammatica come avviene sempre nei concerti del Casals, una formazione capace di incendiare la musica in interpretazioni generose nel suono e dal fraseggio mosso e appassionato.

Lo si è subito visto in apertura di serata nella selezione di contrappunti tratti dall’Arte della Fuga di Johann Sebastian Bach, la quale come è noto è stata composta per clavicembalo ma come è altrettanto noto si adatta alle trascrizioni più disparate, proprio a partire dalla trascrizione per quartetto d’archi, la veste strumentale più vicina allo spirito dell’originale tastieristico. La lettura del primo violino Abel Tomàs, del secondo violino Vera Martínez Mehner, del violista Jonathan Brown e del violoncellista Arnau Tomàs, infatti, era tesa a valorizzare la bellezza del suono e il legato piuttosto che la levigatezza del gioco del contrappunto, con esiti di grande intensità espressiva. All’Arte della Fuga bachiana sono seguiti, per restare in tema, i Riflessi sul tema B-A-C-H di Sofija Gubajdulina, con un passaggio di consegne tra antico e moderno nel nome del contrappunto suggellato e, nella seconda parte del concerto, il Quartetto in Do maggiore op.59 n.3 di Ludwig van Beethoven, compositore che non è né antico né moderno ma è Beethoven e basta.

In Gubajdulina Tomàs e Martínez Mehner si sono scambiati di leggio, ma l’approccio è rimasto lo stesso, un approccio che ha messo molto bene in luce la natura intima e religiosa di questa pagina composta nel 2002 su richiesta del Quartetto Brentano, che aveva commissionato a dieci compositori dei brani ispirati a un contrappunto dell’Arte della Fuga bachiana. La Gubajdulina è partita dall’incompiuta Fuga conclusiva a tre soggetti per creare un lavoro pieno di sottintesi e di silenzi, nella cui introduzione il suono sia affaccia esitante manifestandosi in brevi frammenti trattati contrappuntisticamente fino a dare corpo, spostandosi nella zona acuta, a un discorso musicale più compiuto in un movimento dal basso verso l’alto pieno di tensione se non addirittura di angoscia, a cui segue una sezione in cui i quattro archi si rispondono l’un l’altro attraverso dei brevi glissandi ascendenti. Nella musica della Gubajdulina il suono assurge quasi sempre a un ruolo centrale, un suono per così dire contemplato nella sua fissità, e l’interpretazione del Cuarteto Casals è riuscita a valorizzare fino in fondo proprio questo aspetto, cogliendo del resto tutta la densità drammatica della scrittura della compositrice russa.

La stessa drammaticità nel fraseggio e nel suono si è avvertita nel Quartetto op.59 n.3 beethoveniano, l’ultimo del gruppo di Quartetti dedicati al Conte Razumosvskij, nel quale il ruolo di primo violino è stato ricoperto sempre dalla Martínez Mehner. Le battute introduttive sono state un capolavoro di introspezione psicologica, in un’unità straordinaria di intenti e di respiro, perché se è vero che il Cuarteto Casals privilegia la ricerca del dramma alla levigatezza del suono e del fraseggio, come dimostrano bene le sue interpretazioni mozartiane, sia in concerto sia in sala di registrazione, è altrettanto vero che la pulizia degli attacchi, la precisione dell’intonazione e la cura degli equilibri timbrici e dinamici dell’insieme sono portate a un grado molto alto. Queste battute introduttive hanno rappresentato il momento più emozionante del concerto, ma l’intero Quartetto beethoveniano ha rappresentato una continua sollecitazione emotiva per il pubblico, dal fraseggio flessuoso e perfino ammaliante del secondo movimento all’impareggiabile eleganza del successivo Minuetto fino ad un Allegro molto conclusivo travolgente nella sua vitalità ritmica eppure mai scomposto e mai sopra le righe.

Alla fine sono arrivati lunghi, lunghissimi applausi, ripagati da due bis: la trascrizione di una Fantasia a quattro voci di Henry Purcell suonata in modo molto sciolto e arioso, una Fantasia che ascoltata dopo Beethoven nel suo contrappunto arcaico è stato come un tornare indietro nel tempo, e quindi - unica stravaganza in una serata compatta e tutta nel segno del contrappunto - una trascrizione della Danza del molinero dal Sombrero de tres Picos di Manuel de Falla, rapinosa nel ritmo e fascinosa nel canto del primo violino Abel Tomàs.