L'Amiata Piano Festival 2019 apre in nome di Haydn

di Mauro Mariani

L’Amiata Piano Festival si svolge in tre weekend estivi, ognuno lungo quattro giorni, oltre ad un’anteprima di una singola giornata nella tarda primavera e ad un’appendice a dicembre. Il primo weekend del 2019, quello dal 27 al 30 giugno, si è aperto con una serata interamente dedicata ai concerti di Haydn: potrebbe sembrare una scelta non particolarmente eccitante, perché i Concerti non sono considerati tra le cose migliori di un compositore passato alla storia per i Quartetti, le Sinfonie, le Messe, gli Oratori. È un paradosso che non soltanto i Concerti ma una parte considerevole della vastissima produzione di uno dei più grandi compositori della storia non sia ancora ben conosciuta e che di conseguenza non ne sia ben compreso il valore. Devo confessare che personalmente tra i settori da rivalutare avrei messo le Sonate per pianoforte e le Opere ma non i Concerti. Se mi sono ricreduto il merito è soprattutto di Maurizio Baglini, che da qualche anno sta facendo un prezioso lavoro volto alla diffusione dei Concerti di Haydn, non solo eseguendoli e incidendoli ma anche mettendoli in programma nel festival di cui è direttore artistico.

Sono ben quarantasei i Concerti di Haydn elencati nel catalogo Hoboken, ma di questi molti sono perduti o di dubbia attribuzione o sicuramente apocrifi. Sono invece sicuramente autentici i quattro eseguiti nel concerto del festival toscano al Bertarelli Forum, che appartengono a periodi diversi, poiché due risalgono al 1765-1766, quando Haydn era da poco entrato alle dipendenze degli Estherázy, mentre gli altri due sono del 1782-1783, gli anni della piena maturità. Ne parleremo secondo l’ordine di composizione.

Il primo è il Concerto in Do Maggiore per violino e archi n.1 Hob. VIIa:1, che all’ascolto si è rivelato uno dei migliori lavori di Haydn a quella data. Il primo e il terzo movimento riprendono ancora lo schema del Concerto barocco, ma i ritornelli orchestrali sono molto più vari, perché Haydn fa già valere la sua straordinaria capacità di sviluppare con esiti interessanti e imprevedibili anche temi apparentemente banali. A loro volta gli interventi del solista non sono episodi a sé stanti ma sono più integrati nel discorso complessivo. È impossibile resistere al riflesso condizionato del confronto con Mozart – che è un ineludibile termine di riferimento, anche se bisogna tener conto che Mozart non era ancora nato quando Haydn scrisse questo Concerto – e allora si nota che qui manca la teatralità (nell’accezione positiva del termine) dei Concerti di Mozart: l’entrata del solista non è un piccolo coup de théâtre attentamente preparato, né avviene con un motivo nuovo e sorprendente, ma in Mozart stesso questa è una peculiarità solo dei Concerti dell’ultimo decennio. La sorpresa di questo Concerto è il secondo movimento - un Adagio e non un Andante come solitamente in Mozart - con una lunga e fluente melodia cantabile del solista sul pizzicato dell’orchestra: è evidente l’influsso italiano (forse in omaggio a Luigi Tomassini, cui questo Concerto è dedicato) ma Haydn supera il modello, sfoderando una vena melodica nobile ma anche espressiva, che non gli conoscevamo. Guido Rimonda ha suonato meravigliosamente questo movimento (molto bella in particolare l’ornamentazione, delicata ed espressiva) e ha dato all’intero Concerto un equilibrio e una sostanziosità che già annunciano lo stile classico. L’unico appunto che gli si può fare è l’esilità del registro acuto, soprattutto se paragonato alla pienezza e bellezza del medio-grave. Probabilmente la responsabilità è anche del suo strumento, lo Stradivari chiamato Violon noir, perché Jean-Marie Leclair lo stringeva tra le mani quando morì e le sostanze della decomposizione - il suo corpo fu infatti scoperto soltanto dopo due mesi - vi lasciarono una macchia nera e corrosero una porzione non piccola della tavola armonica, e questo non può non averne alterato la risonanza.

Il Concerto in Fa Maggiore per violino, pianoforte e archi Hob. XVIII:6 fu scritto appena un anno dopo e quindi non è il tempo trascorso a renderlo molto diverso, ma l’inventiva e l’originalità di Haydn, che incomprensibilmente alcuni si ostinano a considerare prevedibile e ripetitivo. Il tema iniziale è semplice, perfino meccanico, ma questa volta l’ingresso dei solisti – prima il pianoforte e subito dopo il violino – è preparato con una certa teatralità, nello spirito dell’opera buffa. Il discorso diventa progressivamente più denso e interessante nel corso di quello che ormai si può considerare un vero sviluppo, anche se siamo ancora in presenza di un ibrido tra Concerto barocco e Forma-Fonata classica. I doppi Concerti spesso presentano dei problemi di equilibrio tra i diversi strumenti solisti e avviene anche qui, ma soltanto nel Largo centrale, quando si ha l’impressione che le ridotte possibilità di legare le note da parte del pianoforte dell’epoca (in realtà Haydn ha indicato il cembalo come solista, ma si era nel periodo in cui clavicembalo e fortepiano erano intercambiabili e si poteva usare l’uno o l’altro a seconda dei gusti o semplicemente dello strumento a disposizione) sia quasi d’impaccio al dispiegarsi di una melodia paragonabile a quella del precedente Concerto.

In questo lavoro a Rimonda si è affiancato come solista Maurizio Baglini, che poi ha eseguito il Concerto in Sol Maggiore per pianoforte e orchestra Hob. XVIII:4 (in questo caso si può essere sicuri che Haydn lo abbia scritto pensando proprio al pianoforte o fortepiano, che ormai aveva vinto la guerra col clavicembalo). Avevamo sentito Baglini in questo stesso Concerto lo scorso ottobre a Roma ma da allora la sua interpretazione è molto cambiata (anche le Cadenze sono diverse): ora è più matura e allo stesso tempo più personale, direi perfino geniale, non per una ricerca di originalità a tutti i costi ma come esito del continuo approfondimento dovuto alla lunga frequentazione di questo brano. Il primo movimento era reso particolarmente vivo e interessante dal fraseggio mobilissimo e dalla varietà delle dinamiche e dei timbri scelti da Baglini: si può dire che ogni nota avesse un proprio colore, come doveva avvenire con i fortepiano dell’epoca, il cui timbro cambiava quasi ad ogni tasto, ben diversamente dall’omogeneità del suono ricercato dai pianoforti moderni e dalla maggioranza dei pianisti, soprattutto quando suonano i classici. L’Adagio inizia con una lunga e assorta introduzione dei soli archi, che lentamente si dirada per dare risalto all’entrata in scena del solista, per il quale Haydn trova una splendida via d’uscita alle accennate difficoltà del pianoforte dell’epoca sul piano melodico, trovandogli dapprima soluzioni diverse dalla cantabilità dell’introduzione orchestrale, poi combinandolo con l’orchestra, ma lasciando a quella la parte melodica vera e propria e lasciando al pianoforte il compito di arricchirla con una magnifica e libera ornamentazione, quasi improvvisata. Come negli altri Concerti, è leggermente meno interessante il movimento finale, il cui compito è fornire una conclusione vivace e colorata: in questo caso è un Rondò pieno di spirito e di colore, con i ritmi di marcia e le tinte “all’ongarese” di altri Finali di Haydn, ma con una Coda che preannuncia l’energia e la maestosità delle sue ultime Sinfonie.

Questo Concerto era relativamente noto, ma solo ora, grazie a questa interpretazione, abbiamo capito che può entrare di diritto tra i capolavori di Haydn e non sfigura affatto al confronto con i Quartetti e le Sinfonie di quello stesso periodo. Lo stesso deve dirsi anche del Concerto in Re Maggiore per violoncello e archi Hob. VIIb:2. Inizia, diversamente dagli altri Concerti ascoltati nella stessa occasione, in un modo che si può definire trattenuto e riservato, adatto al violoncello ma anche a Silvia Chiesa, la solista di questa esecuzione. Ma presto diventa più disinibito e audace, lo sviluppo è alquanto libero e la parte del violoncello si spinge nel difficile e insidioso registro acuto esigendo dal solista un grande impegno virtuosistico (arriva fino al Sol sovracuto, in chiave di violino!). In questo Allegro moderato, come anche nel pensoso Adagio centrale e nel cordiale Rondò finale, Silvia Chiesa è stata meravigliosa, non ha fatto minimamente trasparire le difficoltà tecniche e non ha esibito il suo virtuosismo ma ha fatto sembrare tutto semplice, invitando l’ascoltatore a concentrarsi sulla musica e non sull’esecutore. Nobiltà del fraseggio, grande cantabilità, perfetto controllo del suono sono solamente alcune delle qualità di un’esecuzione veramente magistrale.

Resta da dire della Camerata Ducale, diretta dallo stesso Guido Rimonda, che ha dato un contributo fondamentale alla riuscita dell’intero concerto. Quel che è più piaciuto è lo spirito cameristico che permeava queste esecuzioni, perché i musicisti dell’orchestra non si limitavano a seguire passivamente la bacchetta del direttore ma erano più partecipi e coinvolti, si ascoltavano l’un l’altro, intessevano uno stretto dialogo tra loro e con il solista di turno, che a loro volta non si comportava come il divo della situazione ma come un primus inter pares. Perché questo sia possibile sono necessarie sale non troppo grandi: l’Auditorium Bertarelli si è rivelato ideale.

L’ottimo successo lascia ben sperare per il futuro dei Concerti di Haydn, ma anche le altre istituzioni musicali devono svegliarsi.