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L’intenso e raffinato Beethoven del Quartetto Belcea al Teatro Argentina di Roma

di Luca Lucibello

Il Belcea Quartet è stato l’atteso protagonista del secondo appuntamento dell’integrale dei Quartetti di Beethoven promossa dall’Accademia Filarmonica Romana al Teatro Argentina in occasione dei 250° anniversario della nascita del compositore. Il ciclo, inaugurato lo scorso 5 dicembre con il Quartetto Pavel Haas, proseguirà il 20 febbraio con il Jerusalem Quartet e il 26 marzo con l’Hagen.

Quartetto residente alla nuova Pierre Boulez Saal di Berlino e, dal 2010 insieme all’Artemis, alla Konzerthaus di Vienna, il Belcea è una delle formazioni da camera più prestigiose sulla scena internazionale, con un repertorio che spazia dal classicismo al contemporaneo e una pluripremiata e vasta discografia, fra cui la registrazione live dell’integrale dei Quartetti di Beethoven effettuata nel 2012-13, premiata con un Gramophone Award.

In questa stagione, per il suo venticinquesimo anniversario, sta portando l’integrale del Maestro di Bonn nuovamente in giro per il mondo, in sale come la Wigmore Hall di Londra, il Théâtre des Champs Elysées di Parigi e l’Università di Hong Kong.

All’Argentina la rumena Corina Belcea, il francese Axel Schacher, il polacco Krzysztof Chorzelski e il francese Antoine Lederlin hanno eseguito il Quartetto op.59 n.1, primo dei tre lavori composti fra il 1805 e il 1806 e dedicati al conte Razumowsky, ambasciatore russo a Vienna, violinista e grande mecenate, e il Quartetto n.12 op.127, scritto diciotto anni più tardi, con lo splendido Adagio, fra le pagine più sublimi e contemplative dell’ultimo Beethoven. Da notare l’utilizzo da parte dei quattro musicisti dei leggii elettronici, che tra i numerosi vantaggi eliminano i problemi di voltate e di pagine volanti.

Alcune asprezze sonore nei primi due movimenti dell’op.59 n.1, complice l’asciutta e non facile acustica dell’Argentina, sono andate dissolvendosi nell’Adagio molto e mesto, nel quale i musicisti hanno dispiegato un nobile fraseggio che, unito ad un sapientissimo dosaggio delle dinamiche con dei pianissimi da togliere il respiro, ha dipinto magnificamente quel «salice piangente o acacia sulla tomba di mio fratello» che Beethoven scrisse sul suo taccuino sotto lo schizzo di questo movimento. Il brillante Allegro finale, con il suo tema russo, è stato reso senza protagonismi ma con un’irrefrenabile slancio di vitalità.

Nell’op.127 il pubblico ha potuto apprezzare appieno la densa polifonia, i continui mutamenti armonici e il radioso lirismo di questo lavoro che aprì una stagione nuova e fondamentale nella produzione cameristica beethoveniana. Alla fine è mancato solamente il bis, nonostante gli applausi convinti del pubblico.