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Le alchimie sonore del violoncello di Maximilian Hornung

di Luca Segalla

All’inizio della serata dello scorso 28 marzo a Lugano Maximilian Hornung ha spiazzato l’uditorio del LAC eseguendo, senza annunciarla, la Sonata per violoncello solo del contemporaneo svizzero Dieter Ammann, per poi attaccare immediatamente la prevista Sinfonia Concertante per violoncello e orchestra in Mi minore op.125 di Sergej Prokofiev. È infatti da qualche tempo una costante dei concerti dell’Orchestra della Svizzera Italiana, nella cui stagione era inserito il concerto, quella di aggiungere delle piccole sorprese per il pubblico non indicate nel programma. Tanto piccola, però, la Sonata di Ammann non è e nemmeno tanto facile, essendo tutta sospesa tra pizzicati e spettrali glissandi che Hornung ha controllato alla perfezione, mostrando non soltanto un ottimo dominio della tecnica ma anche una speciale sensibilità per il timbro e le dinamiche.

Dopo questo bel biglietto da visita il trentatreenne violoncellista tedesco, il quale dal 2008 fino al 2013, quando ha deciso di dedicarsi a tempo pieno alla carriera di solista, è stato il Primo Violoncello dell’Orchestra Sinfonica della Radio Bavarese, si è avventurato nei percorsi tortuosi della Sinfonia Concertante di Prokofiev. Si tratta di una pagina dalla lunga gestazione, che è stata abbozzata nel 1933 come Concerto per violoncello e orchestra, è stata completata ed eseguita nel 1938 e quindi è diventata Sinfonia Concertante tra il 1951 e il 1952 in virtù della collaborazione tra il compositore e un giovane Mstislav Rostropovich. Anche in questo caso Hornung, oltre che per il virtuosismo impeccabile e l’agilità nei passaggi veloci, si è fatto apprezzare per il controllo delle dinamiche, particolarmente complesse in una partitura così rapsodica e umorale. L’Orchestra della Svizzera Italiana, guidata sul podio con precisione millimetrica dal suo direttore stabile, Markus Poschner, è apparsa in grande sintonia con il solista, soprattutto sul piano dell’amalgama timbrico, lasciandogli giustamente la scena quando la partitura richiedeva slanci melodici e abbandoni al canto che Hornung non ha certo lesinato al pubblico. Un poco sopra le righe, invece, è sembrata l’interpretazione della Sinfonia n.8 in Fa maggiore op.93 di Beethoven, affrontata da Poschner con stacchi di tempo molto rapidi e nel segno di una robusta vitalità ritmica, ma senza particolari guizzi di fantasia.

A dare una scossa alla serata c’era infine il Poème Symphonique per cento metronomi che è stato composto da György Ligeti nel 1962 e che viene eseguito molto raramente, sia perché obbliga gli organizzatori a recuperare e a caricare i cento metronomi previsti in partitura, sia perché rischia di spiazzare - e molto - il pubblico. In realtà il Poème Symphonique, oltre ad essere una provocazione nel suo farsi beffa della tradizione tardoromantica che affidava all’interprete un ruolo quasi demiurgico nei confronti della musica eseguita (qui la figura dell’interprete è abolita del tutto, perché i metronomi, una volta avviati, suonano ovviamente da soli…), è una riflessione intorno al concetto di entropia, secondo quanto dichiarato dallo stesso compositore. La confusione iniziale dei cento metronomi che battono simultaneamente tempi diversi, una rappresentazione sonora del massimo grado di entropia, a poco a poco, con la progressiva fermata dei metronomi, si trasforma infatti in una struttura più chiara, riducendo l’entropia, la quale torna a crescere quando resta un solo metronomo con il suo nudo battito nel silenzio generale.